SOCIETA'

di Marika Campeti

L’orrore della prigionia delle donne in Tibet

Poche di noi sanno quanto sono fortunate ad essere donne in Italia In molte parti del mondo le donne vivono in vere e proprie condizioni di terrore, viene negato loro il diritto non solo di essere donne, ma di vivere! In Tibet molte donne sono incarcerate e torturate senza aver commesso alcun reato, la loro unica colpa secondo la dittatura cinese è sognare un Tibet di nuovo libero. Nella città di Lhasa  si trova tra le alte montagne del Tibet un carcere che fu costruito da Mao Tze-Tung : la prigione di Drapchi. Qui sono detenuti molto tibetani accusati di indipendentismo, tra questi molte donne, la maggior parte monache. Le condizioni di queste donne è tra le più atroci ed è così difficile immaginare come possano ancora sopravvivere che questa cruda verità ci può sembrare una storia dell’orrore da dimenticare al più presto. Le donne nel carcere sono costrette a lavorare forzatamente con orari estenuanti con i piedi nudi sul ghiaccio, vengono rinchiuse nei loro pochi momenti di riposo in celle buie e putride, piccole come frigoriferi nelle quali non possono stare in piedi, ma piegarsi subendo gravi patologie alla schiena,vengono nutrite poco e male, spesso il cibo è avariato. 

Sono obbligate a sentire le peggiori invettive dai loro carcerieri cinesi, vengono insultate e il peggiore tra tutti gli orrori è che vengono private di essere madri. I cinesi sono crudeli e sadici e le prigioniere vengono violentate più volte, a turno, vengono torturate, e se qualcuna di loro ha la sfortuna di restare incinta vengono immobilizzate e fatte abortire con dei bastoni elettrici senza anestesia, altre vengono sterilizzate da subito, perché la dittatura cinese sta attuando un vero e proprio genocidio del popolo tibetano e controlla le nascite con mezzi crudeli. Ad altre prigioniere vengono uccisi i figli appena partoriti.

Lo scopo dei dittatori cinesi è quello di piegare la dignità di un popolo così pacifico, così spirituale, di strozzare dalle loro voci quei canti di libertà del loro Capo Spirituale, il Dalai Lama, premio Nobel per la pace. E per piegare questa volontà, per ridurre le donne a esseri incapaci di volere e sognare i cinesi le fanno spogliare davanti a tutti per umiliarle, le fanno assalire dai cani feroci, le sottopongono a torture con bruciature di ogni sorta, vengono picchiate a sangue, a volte fino alla morte. Ma le donne tibetane alla loro dignità non rinunciano. Sostengono movimenti di solidarietà da dentro il carcere, resistono alle sevizie in nome del loro Tibet, di un Tibet non arreso, ma rubato. Il caso più drammatico è quello di una giovane monaca tibetana Ngawang Sangdrol, che è stata arrestata all’età di tredici anni per aver partecipato ad una manifestazione pacifica a favore dell’indipendenza del Tibet, da allora nello stesso carcere è stata condannata più volte, le sue colpe sono  quella di aver composto una canzone sulla libertà e per aver gridato “Viva il Tibet libero” mentre stava subendo una punizione corporale. Ngawang è destinata a restare in carcere fino a trentasei anni, ed oggi ha ventitré anni ed è stata più volte torturata, le sono state amputate due dita ed ha danni permanenti alle mani ed ai reni. Nonostante questo la piccola monaca tibetana non si piega ed è un esempio per i giovani che sono costretti a rinnegare la loro cultura, la loro religione, che sono obbligati a trasformarsi in cinesi.

Questo orrore purtroppo non è un brutto incubo, e un modo per aiutare queste donne chiuse in gabbia come animali è quello di diffondere la verità, di dare voce alle loro grida, di sparare al silenzio. In nome dei diritti che noi donne occidentali abbiamo così faticosamente ottenuto, è in primo luogo nostro dovere non chiudere questa pagina e dimenticare.

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